LIA-CODE NASCE DA UNA RIBELLIONE: UN NUOVO MODO DI ENTRARE IN CONTATTO CON L’ARTE CONTEMPORANEA
Ho intervistato Liala Polato: grazie a lei nasce un nuovo modo di leggere l’opera d’arte.
La sua ricerca d’arte, maestro Polato, ha finalità e obiettivi che condivido in pieno, nella sintesi di un progetto serio e coerente. Le chiedo di spiegarlo a coloro che ci leggono.
Credo che per spiegarlo sia necessario raccontare come è iniziato il mio percorso. Stavo guidando in una giornata grigia fuori e dentro l’auto, stavo percorrendo la strada e ascoltavo una radio che non trasmetteva musica ma che interagiva con persone in difficoltà. Ogni intervento era anticipato da una presentazione del tipo “è un esodato”, “è una disoccupata, divorziata, fallito”. Sentivo solo parole che mi inducevano a visualizzare delle categorie e non delle persone. Ma loro chi erano? Cosa c’era nella loro vita oltre a questo? Ed io una di loro, io che sono una “divorziata” e, dopo qualche anno, in aggiunta anche una “madre single”; dove mi collocavano queste parole? Non c’era altro, non ero dunque null’altro? Cosa rimane dell’esistenza oltre a quelle classificazioni? E poi cosa sono queste parole? In quel momento ho sentito la necessità di ribellarmi. La mia ribellione a ciò che etichetta, codifica, toglie l’identità è stata ironica; mi sono detta “cara parola e se adesso fossi io a codificarti?” Nasce così Lia-code, la mia reazione, il mio strumento che scompone le parole per codificare le lettere stesse, un sistema binario (ASCII 7 bit) che sostituisce i numeri zero e uno, con linee, spazi, vuoti, sfondati, incisioni, e inizia così il mio salvifico viaggio. Quando ho avuto l’occasione di preparare un viaggio, studiarlo, progettarlo, affrontarlo viverlo con i suoi imprevisti e sorprese mi sentivo un’esploratrice del mondo. Quando preparo un lavoro, lo studio, lo progetto e lo vivo, esploro me stessa e mi rifletto nell’altro, mi sento un’esploratrice dell’animo. Mi sorprendo a “sconfinare”, annullando quegli angoli presenti nel mio esistere, mi immergo nel territorio astratto delle parole che plasma il paesaggio verbale, mi muovo negli spazi e sky-line della comunicazione. Mi cerco e mi trovo. Dicono che vivere come se si lasciasse il cancello di casa aperto, sia rischioso; mi sono presa il rischio di lasciar scorrere le mie emozioni tra le mani e queste hanno prodotto paesaggi, spazi liberi, aree urbane, profili. La mia arte è una vignetta, una pagina, un racconto, un progetto. Non è un viaggio nell’irreale; è l’impronta di mia figlia che fissa l’unicità dell’individuo, è una tesi di maturità che affronta il disagio dell’uomo e del territorio, è la mia necessità all’oblio per incontrare il nuovo, è il bisogno di trovare risposte che aiutino la quotidianità, è un lavoro sul linguaggio, sulla sua decifrabilità in relazione alla comunicazione.
Come è nato questo progetto e questo ciclo?
Poiché il mio fare, in fin dei conti, non è altro che un lavoro sul linguaggio, sul materico, sulla semplice simbologia, sulla sua decifrabilità in relazione alla comunicazione; questo mi ha costretto a riflettere circa la “leggibilità” delle mie opere, nel senso della sua comprensione e della sua fruibilità; quante volte ho sentito dire che l’arte è di tutti ed è per tutti, ma la mia lo è veramente? Ho pensato di mettere in relazione il mio linguaggio codificato con la scrittura braille unitamente a semplici forme (per questo progetto ho inserito l’esagono – la figura geometrica che consente un uso efficiente dello spazio e ne riduce lo spreco). Nasce così l’idea di un progetto di arte tattile per non vedenti e si è rafforzato grazie alla collaborazione con il Centro non vedenti di Brescia e a un’esposizione allestita al fine di sperimentare una visione tattile sia per vedenti bendati sia non vedenti. Ed ecco che mi trovo immersa in un’esposizione realmente per tutti.
Una sua opera sarà a Pontremoli nella mostra a mia cura dal 10 al 25 luglio: cosa vorrebbe comunicare a coloro che osservano la sua opera e che vorrebbero approfondire il tema?
Mi piacerebbe che i fruitori vedenti si lasciassero bendare per vivere l’esplorazione tattile e per dedicarsi all’ascolto e alla loro personale visione sensoriale, che il loro sentire possa diventare per pochi istanti il loro vedere. Credo che l’avvicinarsi ad un’opera d’arte possa permettere una lettura più ampia del solo guardare penetrando l’opera a tutti i livelli, leggendone ogni particolare toccando ogni sfumatura e rilievo. Forse è utopico, ma sarebbe un modo anche per rompere il velo della superficialità, per andare oltre al “mi piace o non mi piace” e poter esprimere “mi parla o non mi parla”. Vorrei che si comprendesse l’intento di ampliare le modalità di relazione tra le persone senza nessuna preclusione.